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Storia breve del contributo e dell’eredità femminile nell’arte medico-erboristica

Quando si parla di fitoterapia, di erbe e piante officinali, immediatamente evochiamo il ruolo delle donne, storie che hanno lasciato una traccia importante, spesso ignorata dai testi ufficiali, nello studio e nell’uso delle piante stesse. Dall’inizio dei tempi, mentre gli uomini si allontanavano dai villaggi per cacciare o per combattere, le donne si assumevano la gravosa responsabilità di occuparsi di bambini, anziani e ammalati, sviluppando attitudini di osservazione e di pratica empirica, che col tempo si sono strutturate in ripetizione di gesti e conoscenze.

Ha sempre agito sicuramente un istinto viscerale, legato alla difesa della prole, accanto al quale, tuttavia, convive un aspetto antropologico e culturale importantissimo, comune a tutte le civiltà antiche, nelle quali le donne hanno assunto un ruolo più statico all’interno delle comunità, approfondendo i saperi legati alla raccolta delle piante salutari e commestibili, alla loro trasformazione, conservazione e somministrazione.

Non parliamo soltanto delle ‘curatrici’ popolari perseguitate negli anni bui del Medio Evo o di nomi ‘famosi’ come Ildegarda di Bingen, considerata la più celebre delle scienziate medievali  (autrice di due trattati enciclopedici che raccolgono tutto il sapere botanico e medico della sua epoca con intuizioni sorprendentemente moderne sull’impiego delle piante) oppure di Trotula de Ruggiero, allieva e poi docente della Scuola Medica Salernitana, entrambe grandi innovatrici oltre che profonde conoscitrici dell’uomo e della natura, ma pensiamo anche a  molte altre figure femminili che, animate dall’amore per la natura e da uno spirito anticonformista, ne hanno intrapreso lo studio, spesso tra molte difficoltà,  fornendo preziosi contributi  per la scienza botanica: un vero e proprio patrimonio di conoscenza ed energie straordinario.

Le medichesse erano donne che curavano e venivano chiamate con molti nomi: ostetriche, mammane, levatrici, herbarie, streghe. La loro era una medicina empirica, acquisita attraverso la trasmissione orale e l’assistenza alle più anziane e più sagge. Spesso erano analfabete ma sapevano dosare con sapienza, il potere officinale delle piante e la parola incantatoria, ed erano abituate a un contatto molto stretto col paziente e con la malattia.  Questo contribuì a sviluppare una visione “di genere” della medicina che prevede sensibilità e vicinanza, presenza e parola consolatoria, capacità di osservazione e rispetto paziente dei tempi della natura.

Probabilmente il primo nome di donna medico giunto a noi è quello di Merit Ptah, vissuta in Egitto intorno al 2700 a.C.; purtroppo non sappiamo altro di lei, come di tante altre medichesse di cui conosciamo l’esistenza grazie al fortuito ritrovamento delle iscrizioni funerarie che ne ricordano il nome e la professione. In verità la storia più antica della medicina femminile si alimenta di presenze silenziose e discrete, che la parola scritta non ha saputo, o voluto, consegnare alla memoria dei posteri. Il trattato femminile più antico che possediamo è quello di Metrodora, un’ostetrica bizantina vissuta nel VI secolo d.C., che inaugura la letteratura medica delle donne, consegnandoci un documento fondamentale per lo studio della trattatistica femminile. Le figure di Maria l’Ebrea (colei che per tradizione ci avrebbe lasciato in eredità la tecnica ancora oggi definita “bagnomaria”) e di Cleopatra, probabilmente appartengono più al mito che alla storia, ma ci testimoniano la convinzione che all’origine di questa arte complessa e particolarissima fosse plausibile trovare due figure di donna: la santa e la peccatrice. Ad un certo punto della storia umana infatti, si passò dalla visione della “mulier sancta ac venerabilis” alla visione “foemina instrumentum diaboli”, per dirla con le parole di Tertulliano: si insinuò il sospetto che il sapere femminile si alimentasse di una dottrina occulta esoterica, volta a sovvertire l’ordine naturale dell’universo.

Quindi,  già Tertulliano e i primi apologeti cristiani attingevano a un immaginario ben radicato nelle culture classiche proponendo una vasta iconografia di streghe negromanti, adepte di Ecate e frequentatrici della notte e degli inferi. La dualità è il segno distintivo della definizione del femminile e nel mondo cristiano, la santa e la strega rappresenteranno i due estremi di questa percezione, apparentemente inconciliabili, in realtà vicinissimi. Contrariamente a quanto si può pensare, le epoche più antiche sono state più tolleranti nei confronti della presenza delle donne in questo campo. In seguito, con il rafforzarsi del sistema della formazione accademica, delle licenze e delle università, le donne hanno perso gradualmente terreno, rimanendo escluse dal sistema ufficiale e dal riconoscimento di una propria professionalità. La medicina ufficiale, a questo punto, ha intrapreso una strenua battaglia ideologica contro le guaritrici popolari e le loro superstizioni magiche, che tuttavia, per lungo tempo, hanno continuato a riscuotere la fiducia delle classi meno colte.

Ildegarda di Bingen, come già detto, rappresenta e ha rappresentato, una figura di grande levatura, per densità filosofica e capacità di elaborazione di un concetto di salute che ancora oggi risulta di forte attualità.  E’ stata una santa visionaria, ma anche una curiosa indagatrice della natura, artefice di un’esplorazione del concetto di cura che chiama a raccolta il ruolo del mondo vegetale e minerale, la musica, il potere della preghiera e di tutto ciò che ha qualità generativa.  Non ebbe timore di entrare in contrasto con il clero della Chiesa cattolica del tempo, e fu sia nell’arte medica che nella  musica ed in altri campi da lei affrontati, una grande innovatrice e sperimentatrice. Benché Ildegarda si definisca «povera miserella», in lei vibra tutta la cultura del suo tempo. Le sue parole fanno intuire lo sforzo unificante dei saperi e della vita.  È in fondo la stessa concezione positiva che ritroviamo nell’opera di Trotula, forse la più famosa figura femminile legata alla Scuola Medica Salernitana che mette insieme la medicina maschile di Ippocrate e Galeno e la sapienza medica femminile: le varie opere attribuite a questa medica hanno tutte un elemento comune: la cura della malattia non è la cura del ‘pezzo malato’, ma è la cura dell’uomo nella sua interezza, nel corpo e nella psiche.

                         

Con il fanatismo religioso del periodo tardo medievale, tuttavia, le donne che padroneggiavano l’arte della medicina basata sulle erbe vennero additate dalla Chiesa come serve del diavolo e il loro sapere fu sottratto e deturpato dall’egemonia maschile sempre più determinante nel campo medico-universitario. Ma tanto vaste erano le cognizioni delle streghe che nel 1527 Paracelso, considerato il padre della medicina moderna, diede alle fiamme il suo testo di farmacologia confessando che tutto ciò che sapeva lo aveva imparato dalle fattucchiere!

La caccia alle streghe, nata verso la fine del XV secolo,  terminò  nel diciottesimo secolo: l’ultima strega messa a morte fu Anna Göldi, in Svizzera, nel 1782. Durante questo periodo di fobie ed insane credenze, la medicina tradizionale erboristica visse una fase di repressione ed oscurantismo; ciononostante, il patrimonio di conoscenze legato alle erbe ed alle piante spontanee è sopravvissuto, ed è stato tramandato sino ai giorni nostri. Finalmente, sul finire dell’Ottocento le maglie cominciarono ad allentarsi: alcune facoltà di medicina d’importanti università iniziarono a praticare un insegnamento misto, ossia aperto sia agli uomini che alle donne. Già nel 1900 si contavano negli Stati uniti 7000 medici di sesso femminile: personaggio assai singolare fu Sophia Jex-Blake. Grazie ai suoi sforzi si aprì a Londra nel 1874 una scuola medica riservata alle donne e nel 1886 fondò lei stessa un’analoga scuola a Edimburgo. Per le prime donne medico in Italia, occorrerà invece aspettare la fine dell’Ottocento perché l’accesso a tutte le facoltà universitarie teoricamente consentito nel 1874, non autorizzava  all’esercizio delle libere professioni. Fu la legge del 1919, cosiddetta Legge Sacchi a renderlo  consentito. La prima laureata del Regno d’Italia fu Ernestina Paper che conseguì il primo livello di laurea in Medicina all’Università di Pisa nel 1875 e la specializzazione due anni dopo nel 1877. Dopo di lei, fino al 1900, le laureate in Medicina e Chirurgia furono 23, fra cui Maria Kuliscioff e la famosa Maria Montessori.

                       

Concludiamo questa breve carrellata di volti femminili che hanno fornito un formidabile contributo alla scienza erboristica e per questo ispirano profonda dedizione e rispetto, ricordandone il grande sacrificio, donne che hanno offerto tutta la loro vita pagando anche con la morte per sostenere la sacralità, la bellezza e la generosità eterna della Natura.

R.A.

Bibliografia:

“Ildegarda Di Bingen – Maestra di sapienza nel suo tempo e oggi” Michela Pereira (Gabrielli Editori 2017)

“Le erbe delle streghe del Medioevo” Rosella Omicciolo Valentini (ed. Penne e Papiri 2010)

“Medichesse” Erika Maderna (Aboca edizioni 2012)